Racconto sportivo

Battaglie nel fango

Battaglie nel fango

La nostra rassegna di storie sportive firmate da Alberto Sogliani.


Se dovessi scegliere una stagione nella quale giocare a calcio, non avrei dubbi: l’autunno. L’inverno è (o meglio, era) troppo rigido, la primavera ti induce a fare altro, d’estate al massimo ti viene voglia di fare qualche partita quando cala il sole. Ho ricordi fantastici ed ancora molto vivi invece di match tiratissimi nel fango, con la pioggia battente: alla domenica mattina, soprattutto, ma anche di pomeriggio o di sera, con gli allenamenti prima nelle squadre giovanili e poi negli Amatori.

Non c’era bisogno di spinte o forzature: la borsa era lì che ti aspettava, pronta per essere riempita. Con gli scarpini, innanzitutto, e poi con tutto il materiale necessario: calzettoni, senza piede oppure di cotone, maglia intima pesante, tuta, pantaloncini, giacca leggera impermeabile tipo k-way, cuffia. Da grande poi accappatoio e ciabatte infradito, da piccolo no, ora che ci penso: quasi sempre si faceva la doccia o il bagno a casa, imbrattando la macchina di tuo padre. Una sbattuta agli scarpini per togliere la terra rimasta attaccata sotto la suola e via.
Del resto trovare un campo con spogliatoi provvisti di servizi igienici era quantomeno raro. Nel caso, probabilmente non la facevi perché non avevi messo nella borsa l’occorrente.

Quando c’era la partita poi era indispensabile ricordarsi di prendere la maglia. Certo, perché non esistevano magazzinieri che raccoglievano le mute nei cesti: a lavare la maglia ci pensava tua madre e la gara successiva si arrivava al campo con quella con il numero utilizzato l’ultima volta. Con il rischio che la tua, profumata e linda, fosse indossata da un compagno di squadra schierato al tuo posto. Oppure, peggio, che l’allenatore (non il mister, attenzione) ti facesse giocare in un altro ruolo e tu eri costretto a metterti quella di un tuo amico la cui mamma si era dimenticata, o non aveva voluto, provvedere a questo compito. Dunque sporca, umida, ancora macchiata di fango. Se per disgrazia addirittura non ci si ricordava di metterla nella borsa era un problema serio: mancava la maglia numero 7, oppure 10, e non ce n’erano di scorta. La muta era una, che si tramandava dalla squadra più vecchia, e spesso durava più di un anno. Non restava che tentare di giocare con la 13 o la 14, però gli arbitri non vedevano di buon occhio questa cosa.

Il rituale era il medesimo: borsa preparata la sera prima, convinti che ci fosse tutto, poi nello spogliatoio quasi sempre ti accorgevi che qualcosa era rimasto a casa. Mattinate di nebbia o di diluvio che stava durando da giorni, che iniziavano alla fermata dell’autobus: l’umidità ti avvolgeva e non vedevi l’ora di poterti spogliare e correre. Così almeno iniziavi a scaldarti ma non nel senso di risveglio muscolare, quanto piuttosto nel senso letterale che avevi meno freddo.

L’allenatore diceva la squadra, tanto si sapeva già chi giocava sempre e chi non vedeva mai il campo. Nemmeno per un minuto, le sostituzioni per tenere unito il gruppo non facevano parte della filosofia del tempo. In panchina c’erano tre-quattro ragazzi che non godevano della stima di nessuno, nemmeno dei loro migliori amici che ci tenevano al loro posto in squadra. Erano riserve, con tutto quello che significava: loro lo sapevano e ne prendevano atto, fino al momento in cui si stancavano e mollavano con il calcio.

Poi cominciava la partita.

Arbitro rigorosamente vestito di nero, senza molta voglia di correre, autoritario fino all’eccesso. Sembrava volesse farti pagare il fatto di non essere riuscito, lui, a diventare calciatore e quindi non vedeva l’ora di punirti. Con un fallo, un’espulsione o un gol annullato. Però tu giocavi e pensavi solo a divertirti: a sguazzare nell’acqua, a fare dei contrasti, a tirare in porta.

Segnare era il massimo della goduria, a maggior ragione quando si vinceva. Ma una rete realizzata, anche in caso di sconfitta, ti poteva cambiare la settimana e prima di dormire pensavi e ripensavi a quell’esecuzione. A come eri arrivato su quella palla, al calcio che avevi dato, al momento in cui avevi capito che il portiere quella sfera non l’avrebbe mai presa. E poi andavi a casa, sporco da capo a piedi, aspettando di immergerti in quella vasca piena d’acqua che a poco a poco diventava sempre più marrone. Quindi ti sedevi a tavola, rivivendo mentalmente quello che era appena successo. Nell’attesa che tutto ricominciasse qualche giorno dopo.

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a cura di Alberto Sogliani

Alberto Sogliani è nato e vive a Mantova, dove svolge le professioni di insegnante e giornalista sportivo. Attualmente è collaboratore del quotidiano “La Gazzetta di Mantova”, in precedenza per “La Voce di Mantova”, “Corriere dello Sport-Stadio” e “La Gazzetta dello Sport”. Ha inoltre partecipato a molte esperienze giornalistiche della sua città: in particolare è stato redattore per il periodico “Noi”, con articoli di sport e di costume, e collaboratore per Mantova Tv, dove ha curato per qualche tempo il telegiornale sportivo. Spesso è invitato ancora come opinionista in trasmissioni radiofoniche e televisive, oltre che come moderatore in convegni a carattere sportivo. Nel novembre del 2018 ha ricevuto il premio “Cristian Ghirardi-Un calcio per i giovani”, alla memoria, dedicato a chi promuove lo sport ed i suoi valori.

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